lunedì 18 gennaio 2010

ultimo

Questo che scrivo è l'ultimo post che comparirà su questo blog. Chi lo ha sempre seguito sa già qual è il motivo: Riccardo ci ha lasciati ieri.
Ma non intendo parlare del vuoto che ha lasciato, o della sofferenza che ha stretto tutti coloro che lo hanno conosciuto. Qui abbiamo sempre celebrato la gioia di averlo con noi, nelle piccole e grandi cose che sono state questi tre anni e mezzo passati con lui. Per ricordarlo, manterremo il blog online. E qui di seguito pubblico una lettera che gli ho scritto a novembre.
Over.
Tua madre mi ha lasciato solo con i miei pensieri, in questa notte dipinta di un freddo marino in cui anch’io sono poco più che un sasso fra le stille di una battigia calma, che mormora appena il suo canto eterno alle stelle. Dalle serrande filtra una luce giallognola fin troppo familiare, a disegnare sulle pareti figure tremolanti che in tanti altri momenti come questo ho imparato a riconoscere, e di cui ormai comprendo bene ogni moto. Dalla strada rumori sporadici di ruote sull’asfalto, il passo rigido di qualcuno che torna troppo tardi, il soffiare distante di un gatto che fa la posta a qualche angolo di casa.
La poltrona sotto la mia schiena ha subito ripreso la mia forma, anche lei è una vecchia compagna che ho ritrovato in questa confusione tranquilla che è la mia vita adesso. Ho una coperta sulle gambe, di quel blu morbido eppure formale che ricorda le cuccette dei treni a lungo raggio, nato per sposarsi col bianco asettico delle lenzuola di carta monouso. È troppo corta per coprirmi del tutto, o forse sono io ad essere semplicemente troppo lungo per lei, vallo a sapere. Come al solito dal torace in su e dalle ginocchia in giù resto scoperto, visto che addosso ho solo il familiare intimo di cotone grigio che custodisce il mio sonno, o la sua mancanza; eppure non ho freddo, anche se in queste ore, in cui il confine tra il buio e i primi chiarori dell’alba si fa indistinto, è l’aria stessa a rabbrividire intorno a me.
Un tempo avrei avuto la musica, a circoscrivere lo spazio fra un respiro e l’altro, una coltre di note evocative e sommesse oppure rabbiose e dure, dolcissime entrambi nel toccare le corde più riposte del mio esistere un po’ accidentato, a volte smarrito, spesso stanco di attendere una ragione di salvezza. O forse avrei affondato il viso nelle pagine di un libro, uno qualsiasi dei tanti che amo, per cercare tra il nitore dell’inchiostro ed il frusciare pastoso delle pagine parole sufficienti a contenere le mie malinconie nutrite dal vento e dai tramonti. E magari ci sarebbe stata una donna, raggomitolata fra le coperte del mio letto a profumare le lenzuola con la sua pelle e le sue ciglia, qualcuno da abbracciare mentre il nuovo giorno giunge pigramente ad imporre le sue leggi di necessità cui adempiere; non per ansia d’amore o per voglia, ma per rinnovare il mistero di due corpi che si incontrano, per annegare le labbra nelle labbra e gli occhi negli occhi e poter distinguere, anche solo per un istante, il disegno dietro le nostre vite. Mistero da poco, fatto di capelli, di salsedine e di sentori di pioggia, o dell’arrochirsi di una voce fra le pieghe della sera. Mistero non di fede ma di brevi consapevolezze, di ricordi e di blande ragioni.
Un tempo tutto ciò, o qualcos’altro ancora. Un dito di alcol, passi randagi attraverso gli spazi delle stanze, ticchettii di orologi… nell’attesa di una lacrima, o di un senso. Ma non stanotte.
Adesso, sotto questa coperta da poco ed i suoi fruscii discreti, dorme un bambino col mio stesso nome. Le mie mani ne stringono le forma, lo sorreggono appena perché possa distendersi del tutto e arrivare più vicino al mio respiro, a questo cuore che per lui ha perso così tanti battiti da pensare più di una volta di essersi fermato. Continuo a guardarlo, ad ascoltare i moti minimi delle sue mani abbandonate su di me; riempiendomi della sua presenza silenziosa, delle forme buffe dei suoi capelli, della linea dolcissima del suo nasino arrotondato. Cercando in lui anche la più piccola traccia di me, scrutando i suoi sogni cullati dalla curva delle mie braccia. E interrogandomi sul ragazzo e sull’uomo che sono dentro di lui.
Non pongo domande complicate: vorrei solo sapere se gli piaceranno i libri che leggerò per lui, se vorrà vedere con me quel film che mi fa sempre ridere, anche alla centesima volta. E se resterà ad ascoltarmi quando gli parlerò di universi lontani e delle imprese di eroi fantastici e imperfetti, o quando gli racconterò delle città che ho visto, delle mille persone che ho incontrato e conosciuto. Mi chiedo che faccia farà quando gli racconterò delle tante piccole, stupide, tristi e meravigliose cose che hanno portato due vite così distanti a fondersi in una; se protesterà perché non vuole questa o quella maglietta, se metterà il muso perché ho ridacchiato di fronte al dramma esistenziale di una compagnetta che continua a non filarlo, o se mi abbraccerà per un giochetto portato da qualche autogrill sperduto fra le eriche e le nubi.
E poi quasi inevitabilmente, bimbo mio, il pensiero ritorna a quando ti ho visto per la prima volta, creatura minima in un giaciglio di dolore, mentre attorno un vento di braci frustava le case dai lineamenti tetri. Al finire di un mattino di momenti irrisolti, lunghi come solo il rollio ansioso dell’attesa è capace di essere, scanditi dal tremore delle corde impalpabili dell’esistere e dal moto fugace delle mani giunte, irrequiete, inadatte a misurare lo spazio senza nome fra gli istanti. Dopo, per giorni sfumati in settimane e poi in mesi, solo lacrime negate o raccolte dalle ciglia, il frusciare dei tessuti sulla tua pelle infinitesima, i tuoi occhi dischiusi appena sul mondo. Ed io a sederti vicino, silenzioso, a mormorarti di mondi verniciati d’astratto e delle tele senza trama del pensiero. Sempre ad un singolo passo dal tuo respiro, spesso inaudibile.
Affanni che hanno segnato i miei gesti, il mio stesso viso, il mio modo di drizzare le spalle per reggere meglio una parte del peso del mondo. Sorridendo anche di fronte allo spettro della morte, perché quando ti ho guardato ho saputo che avresti conosciuto il tocco delle mie braccia; senza motivo, né ragione. Solo certezza. Ed un giorno, mentre una brezza di gocce inumidiva i palazzi dalle finestre spente, infine sei arrivato qui fra queste stanze, creatura di sospiri nell’abbraccio del mattino, piegando l’architettura misteriosa della mente a sovvertire le sue regole per sottacere ad una stasi del comprendere, densa di calore e di abbandono.
Dopo di allora, a lungo, solo lucori di gioia sotto l’arco delle ciglia, l’odore fresco di lenzuola sull’avorio della pelle nuda… e i tuoi occhi di crepuscolo schiusi come quel sorriso che illumina non solo il tuo volto, ma l’intera vita di tutti quelli che hanno il privilegio di conoscerlo. Ed ecco perché adesso sono qui a fissare queste parole: perché un giorno, non importa quando, tu possa leggerle. E comprendere, al di là di ogni mia incapacità di esprimerti quello che sento con i gesti di ogni giorno, di quanto il mio amore per te sia stato un rivolo di assoluta, luminosa purezza fra le lande dense di ombre di questa mia esistenza incerta.
Il tuo papà